giovedì 29 ottobre 2009

L'esotico, il sé e il sé esotico

Il vocabolario di lingua italiana cita: "ciò che proviene da paesi lontani". Il mito di una civiltà incontaminata e selvaggia ha portato l’immaginario collettivo ad accostare in un rapporto di analogia i due concetti, sulla scia di quanto già in epoca ellenistica filosofi e storici dissero a proposito dei popoli barbari.

Niente di sbagliato fin qui, fatta eccezione di una certa dose di banalità che può portare a prendere atto dell’analogia Esotico=Selvggio/barbaro, non puntando l’attenzione sull’essenza del selvaggio, nella fattispecie del suo relazionarsi a noi: e cioè l’alterità, la diversità nei confronti dello stato normale e normalizzato delle cose.

Alterità che diviene, pertanto, punto di partenza e di arrivo di una riflessione che, mentre ci porta ad uscire dal proprio io e fare la scoperta dell’altro, diviene tappa fondamentale della sua stessa scoperta. La scoperta diviene pertanto la condizione imprescindibile dell’esotismo, tanto da portare alcuni studiosi ad affermare che: "L’esotico è qualcosa che non esiste prima di essere scoperto. Al contrario, è proprio l’atto della scoperta a produrre l’esotico come tale"(Peter Mason 1998).

Poiché, se è vero che che l’altro è esotico, è altrettanto vero che noi siamo "altro rispetto ad altri" e pertanto esotici rispetto ad essi. Ora, parlare di "esotico" come punto di arrivo di un processo che si compie attraverso l’atto della scoperta significa affermare con forza la sua dimensione relativistica. Si tratta di una chiave di lettura a mio giudizio fondamentale alla luce della attuale condizione sociale che ha visto la scoperta della diversità divenire ormai un fatto quotidiano, tanto che si sia sviluppata nella forma del rispetto e della conoscenza, tanto in quella misera della paura e dell’ignoranza. Se c'è una diversità, una lontananza rimasta in un certo senso "esoticamente pura" è quella temporale, di cui non abbiamo memoria né confronto, se non attraverso le parole di chi visse quella diversità come normalità. Eppure, credo sia necessario spingersi oltre, valicare limiti geografici e temporali per scoprire la NOSTRA esoticità, per scoprire la diversità che contraddistingue il sé conosciuto da quello ignoto, per dar vita ad un processo alternativo che ci possa portare a riconoscere l’uguaglianza con l’altro partendo dal riconoscimento dell’alterità del sé e della norma apparente.

Per il momento dispongo solo di immagini mentali, in attesa del parto vi saluto.
Sara
 

1 commento:

ElisaFontana ha detto...

ciao sara!
ho letto attentamente (e devo ammettere più volte) il tuo complesso pensiero.
mi ha fatto sorridere l'accostamento con il post successivo in cui Marcello ci propone di danzare con delle maracas in mano e delle cuffie alle orecchie.
un sorriso è mutato subito in una riflessione terrorizzata, nel vedermi danzare con le maracas in mano!
ho pensato subito a quello che tu definisci "NOSTRA esoticità", ovvero "la diversità che contraddistingue il sé conosciuto da quello ignoto".

Quanto mi è conosciuto il mio corpo che balla con le maracas in mano e delle cuffie alle orecchie? Quanto mi è ignoto?
Riuscirò a metterlo in condizione di eseguire questa danza?

Il mio percorso mi porta sempre più a considerare l'arte come un'esperienza.
Possiamo pure soffermarci su cosa sia un'esperienza, ma non vorrei fare come il povero Eraclito e ritrovarmi zitta.

Impugnerò quelle maracas assaporando l'ignoto, interrogandomi sull'alterità e immaginando gli amici che rideranno a crepapelle, sperando nel"riconoscimento dell’alterità del sé e della norma apparente". (!)


Elisa